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SCHIAVE E MATRONE

i CODICI LEGALI del continente europeo sono derivati (un po' meno in Inghilterra e nei paesi scandinavi) dalle strutture, le categorie fondamentali e il generale metodo di pensiero del diritto romano.
Parlarne perciò non fa parte dell'archeologia, ma di un'attualità ancora vigente I romani razionalizzarono e codificarono il principio dell'otium, ossia del tempo libero che una minoranza si aggiudicava sottraendosi alle fatiche del lavoro produttivo e organizzando il lavoro degli altri per trarne i massimi vantaggi: tempo libero che veniva usato per amministrare l'accu- mulazione e i privilegi, e per aumentare la produzione con le conquiste militari.
Era la guerra che forniva al sistema produttivo l'energia fisica necessaria ossia gli schiavi, inizialmente tutti prigionieri di guerra: e popolazioni assoggettate da cui spremere tasse.
La minoranza dominante dei proprietari-guerrieri si era affermata lentamente, attraverso lunghi processi di divisione del lavoro che non avrebbero potuto svilupparsi senza un consenso.
Fare la guerra per difendere il territorio o impossessarsi di quello dei vicini era certamente l'attività che dava maggior potere, ma era anche rischiosa e faticosa, e c'era qualche vantaggio nel potersi dedicare ai lavori agricoli, artigiani e domestici con la stabilità assicurata da chi correva qua e là esposto alle ferite delle spade e delle frecce.
Tornando dalle sue corse, il guerriero esigeva un premio, con l'orgoglio di chi ha rischiato la vita per la sopravvivenza della comunità; e le sue richieste venivano tutte accolte, dato che lui aveva un'arma in mano e gli altri no Quando era vecchio diventava senatore e legiferava insieme ai suoi pari, per rendere permanenti, anche per figli e nipoti, le condizioni di potere già esistenti di fatto Le donne, per motivi su cui si possono fare le ipotesi piú svariate, rimasero escluse dall'attività militare, ossia dalla massima fonte di potere; ma non dai privilegi della classe dominante.
Le donne dei ricchi fruivano dell'otium ancora piú largamente degli uomini, dato che non si chiedeva loro di organizzare la guerra e le leggi.
Non dovevano piú macinare il grano, 8 spremere le olive e l'uva, pulire e nutrire i bambini, intrecciare le ceste e tessere le stoffe; questi lavori li facevano le schiave e gli schiavi, e i prodotti che eccedevano le necessità della casa potevano essere venduti a beneficio della padrona.
E si emanciparono molto presto dalla manus (da qui l'origi- ne del termine) maritale, ossia dal potere autocratico dell'uomo La manus era il residuo di antichissime consuetudini, precedenti il concetto di Stato e di proprietà, quando per i pastori-cacciatori nomadi o seminomadi impossessarsi di qualcosa voleva dire acchiapparla con le mani, sia che si trattasse di una donna o di una pecora, del legname per farsi la casa o dei frutti delle piante.
Gli originari matrimoni con manus, che comportavano pene crudeli per l'adulterio femminile o divorzio o ripudio per volontà solo dell'uomo, erano stati di tre tipi: la confarreatio (mangiare insieme la spelta o farro, il piú antico cereale coltivato in Italia), cerimonia pubblica e solenne con presenza di sacerdoti, che si ridusse via via a puro pretesto festaiolo riservato ai patrizi; la coemptio (compera fatta insieme), con scambio di doni, residuo arcaico di reciproca compravendita degli sposi; e l'usus, libera convivenza che dopo un anno lo stato legalizzava, imponendo la manus dell'uomo alla donna.
Ma già con l'entrata in vigore delle Dodici Tavole (attorno al 450 a.C. ) i matrimoni con manus erano caduti in disuso, e anche nel piú comune matrimonio per usus (distinto dal concubinatus soltanto per l'intenzione dei coniugi di condividere l'intera vita e non solo un periodo passeggero) si poteva ovviare al successivo intervento della manus con la diffusa usurpatio trinoctii: ossia bastava che la sposa se ne andasse per tre notti all'anno dalla casa maritale per non essere piú assoggettata alla manus del coniuge.
Nel matrimonio senza manus, il diritto al divorzio era pari per l'una e per l'altra parte, e i diritti patrimoniali della donna erano salvaguardati.
Questo coniugium (mettersi insieme il giogo) era frutto della libera volontà delle due parti, e veniva legalizzato in forme quanto mal elastiche: non era necessario l'intervento di un magistrato e nemmeno di un funzionario amministrativo, e bastava che fosse pubblicato; questa pubblicazione poteva farsi anche soltanto di fronte a un gruppo di parenti e di amici Alla fine della repubblica era già caduta in disuso da un pezzo anche la tutela maschile sulla donna nubile e, per quanto l'impero ponesse alcune restrizioni all'esercizio di diritti come la fideiussione, possiamo dire che la matrona, ossia la donna libera e possidente dell'antica Roma, era legalmente piú indipendente e socialmente e sessualmente piú libera delle donne dei secoli seguenti fino a tempi recentissimi.
Era perciò un'accanita sostenitrice della società schiavistica, che le aveva consentito alti tenori di vita, successi nelle lotte per la sua emancipazione e aquisizione di notevoli fette di potere.
Il Conventus Matronarum (Assemblea delle matrone), istituito sotto l'impero, non si occupava solo di abiti e cerimonie di corte, ma anche della posizione della donna nei meccanismi del potere economico e politico.
Gli arcaici miti della donna ideale («domo mansit, lanam fecit») e delle virtú patriottiche delle Lucrezie e delle Cornelie, inventate dai letterati, apparivano quanto mai ridicoli.
La patria potestas riguardava soprattutto i figli e gli schiavi, che la legge romana equiparava di fronte all'autorità del padre e padrone (etimologicamente padre piú grosso).
La privatizzazione dei figli come oggetto prodotto del genitore, che poteva essere usato, venduto o distrutto come qualsiasi altro bene, si sviluppa insieme alla proprietà privata come dominium senza limitazioni.
La differenza tra il figlio e lo schiavo era che il figlio, morto il padre, diventava a sua volta paterfamilias, e probabilmente, dopo tutte le repressioni subite, cercava una rivalsa su quanti ora gli erano soggetti, creando cosí una catena di accumulazioni autoritarie; mentre lo schiavo rimaneva sempre schiavo, a meno che il padrone con atto volontario e pubblico non gli concedesse l'emancipazione, consentendogli di fruire anche lui del lavoro dei suoi ex- simili.
Plinio racconta che Cecilio, un liberto (schiavo emancipato) dei tempi di Augusto, lasciò morendo ai suoi eredi 4.116 schiavi.
Ma anche la patria potestas, pur rimanendo iscritta nelle leggi, subiva nei fatti adattamenti e modifiche: i romani erano molto pratici e poco portati a ostinarsi su principi astratti.
Infatti entrava in contraddizione con un sistema che privilegiava il potere militare e l'esercito, composto di giovani e giovanissimi in piena forma fisica.
Che patria potestas poteva esercitare l'anziano patrizio o il ricco plebeo rimasto a casa con i suoi acciacchi sul legionario che tornava dalle guerre contro Cartagine, magari col grado di ufficiale o con la nomina a proconsole, e in piú con un bel gruzzolo accumulato dal peculium castrense (paga militare), di cui poteva disporre a suo piacimento? Serviva invece moltissimo nel rapporto padroneservo, e come metodi di educazione per i minori della classe dominante.
Nel periodo di massima potenza dello Stato romano, dalla vittoria su Cartagine al terzo secolo d. C., si calcola che i due terzi della popolazione fossero schiavi.
Per tenere a bada una massa cosí vasta, costringerla a lavorare e prevenire le ribellioni (o schiacciarle quando scoppiavano) occorrevano leggi spietate e illimitata durezza nell'applicarle.
Le discipline disumane cui venivano sottoposti i ragazzi della classe dominante erano funzionali alla loro formazione di futuri dirigenti capaci di qualsiasi violenza per assicurare la sottomissione delle masse dei non- liberi e dei popoli assoggettati.
E non è che le mamme portassero, nelle famiglie dei cavalieri e dei patrizi, una nota di dolcezza; la patria potestas faceva comodo anche a loro: il terrorismo contro gli schiavi e la guerra come normale mezzo di arricchimento erano le colonne portanti del potere e del privilegio di cui fruivano.
La storia della patria potestas attraverso i secoli fino al nostro, dal 10 punto di vista dei bambini e degli adolescenti che la subivano, non è ancora stata scritta.
Ma certo era fonte di terribili distorsioni morali e psicologiche soprattutto per i maschi della classe dirigente, sottoposti a un addestramen- to tutto speciale in vista del futuro esercizio del potere.
Dalle discipline paterne a quelle di istituti per soli maschi, dalle antiche scholae fino ai colleges britannici per élites colonialiste, i caratteri di questa formazione appaiono abbastanza costanti: lacerazione dei normali affetti familiari, ai quali i bambini destinati a comandare venivano strappati in età molto tenera, e adattamento a condizioni durissime di cieca obbedienza verso i superiori (Kadavergehorsam, obbedienza cadaverica, dicevano i gesuiti e i prussiani).
Emergendo da cosí gravi frustrazioni affettive e da un cosí rigoroso allenamento alla rinunzia, i ragazzi avevano accumulato una carica tale di callosità morale ed emotiva e di bramosia di rivalsa che, una volta giunti al comando, erano capaci di qualsiasi efferatezza per esercitarlo.
L'immagine femminile in questo tipo di educazione non poteva che essere negativa; la madre, la moglie rappresentavano desiderio di tenerezza, di occupazioni pacifiche, ossia mollezza e mancanza di virili incallimenti alla sofferenza propria e altrui; i maschi non dovevano farsi infiacchire e corrompere.
Il vero uomo doveva essere impervio alle emozioni, e si commuoveva cosí di rado che quando capitava, come a Cesare davanti alla testa mozza di Pompeo, ne parlavano tutti i libri di storia.
Le donne che volevano accedere al potere dovevano dimostrare di essere «virili» e capaci di patria potestas.
E se all'educazione virile si aggiungeva la possibilità di esercitare la patria potestas a largo raggio su grandi comunità, il risultato erano generalmente dei paranoici a sfondo criminale, pericolosissimi per lo sviluppo civile e per la pace dei popoli.
Tra i lavoratori liberi e non liberi, la famiglia e l'educazione dei figli avevano funzioni molto diverse.
Le attività dei coltivatori diretti, dei pastori e dei pescatori, degli artigiani liberi, dei piccoli commercianti coinvolgevano l'intero nucleo familiare, erodendo le barriere della divisione del lavoro e di conseguenza dell'autorità interna del paterfamilias.
Gli affetti e la solidarietà venivano coltivati, e costituivano una difesa contro le pressioni del potere esterno.
L'educazione non era educazione al comando e alle astrazioni intellettuali, ma al lavoro produttivo, legato alla realtà umana e quotidiana.
Le donne non erano confinate ai lavori domestici, ma partecipavano alla costruzione del peculio familiare, con una posizione di collaboratrici e non di serve.
Tra gli schiavi, non esistendo la proprietà privata, non esisteva nemmeno la famiglia giuridica.
Per le schiave non c'era il matrimonio.
C'era il contubernium, ossia la convivenza di un uomo e una donna tollerata dal padrone, previo il suo consenso.
Il virtuoso Catone il Censore dava ai suoi schiavi agricoli il permesso al contubernium dietro un pagamento in monetao in natura che lo schiavo doveva racimolare tra mille difficoltà, se pure ci riusciva (la legge che non gli consentiva nessun possesso gli riconosceva però la possibilità di farsi un gruzzolo personale, peculium, se riusciva a farsi regalare un agnello o un maialino da crescere, o a vendere un po' di legna di bosco, o a farsi pagare per qualche servizio straordinario ecc.
); e rivendicava la proprietà dei figli che sarebbero nati dall'unione.
Consigliava anche di vendere i vecchi e le vecchie prima che fossero del tutto invalidi, per non avere in giro bocche superflue; gli schiavi addetti ai lavori manuali erano considerati puri fornitori di energia fisica: quando non ne avevano piú, venivano buttati via come una macchina guasta.
Lo sforzo della classe dominante di equiparare gli schiavi al bestiame aveva però dei limiti, derivati dal fatto che erano, appunto, degli esseri umani.
Una schiava poteva venire emancipata e diventare cittadina di Roma, una vacca no; gli schiavi potevano trovarsi delle armi e formare un esercito come quelli di Euno o di Spartaco, ma i cavalli, per quanto repressi e sfruttati, non ci sarebbero mai riusciti; tra schiavi e padroni potevano svilupparsi dei rapporti sessuali e affettivi, e un professore universitario comprato in Grecia poteva essere molto piú colto del suo padrone romano.
Controllare con la violenza l'immensa massa degli schiavi, sempre piú complessa e diversificata, diventava via via piú difficile; infatti Columella, il grande esperto agrario dell'epoca di Augusto, trattando gli stessi temi di Catone il Censore, dà delle indicazioni molto differenti: tratta bene gli schiavi, altrimenti non ti lavorano piú, lascia che accumulino un peculium per i piccoli acquisti, falli sposare gratis, carezza i bambini e non li portare via ai genitori.
La condizione dello schiavo agricolo era dura, ma ancora molto peggiore era quella degli addetti alle fatiche piú brutali e monotone.
Sul capo di ogni essere umano non libero pendeva la minaccia di essere condannato per punizione ad metalla (alle miniere), ad lautumiam (alle cave di pietra e di marmo), ad pistrinum (alle macine e ai frantoi), ad remum (ai remi delle navi).
Per far funzionare questi aspetti fondamentali della produzione, con i livelli di esigenze che si erano sviluppati nella società romana, occorreva un immenso numero di braccia e ritmi di lavoro massa- cranti.
Non potevano essere che lavori forzati, perché nessuno, con un minimo di volontà da esprimere, vi si sarebbe sottoposto; ed erano organiz- zati dai militari, con le catene e con le sferze.
Ai remi delle navi erano incatenati soltanto gli uomini, ma nelle miniere e nelle cave, nelle macine e nei frantoi lavoravano anche le donne.
L'impero romano decadde, come tutti gli imperi, per una crisi di manodopera.
La classe dominante non riusciva piú a far lavorare gli schiavi e a reclutare un esercito che garantisse la repressione interna e la difesa delle frontiere.
Gli schiavi andavano in montagna a fare i banditi o in mare a fare 12 i pirati, l'esercito era indebolito dalle massicce diserzioni e ammutinamenti, e dalla pretesa di paghe esorbitanti.
Era necessario trovare nuovi metodi per indurre lavoratori e soldati a servire il padrone: da una parte riprendere il discorso di Columella per un linguaggio piú umano e persuasivo, dall'altra inventare forme di terrorismo psicologico e metafisico che le religioni dell'impero, col loro pluralismo e la loro tolleranza, non potevano fornire.
Il cristianesimo si adattava a puntellare l'impero fatiscente col suo dio unico, proiezione della monarchia assoluta, con l'esaltazione della patria potestas, con la rassegnazione e l'obbedienza come virtú centrali degli sfruttati («porgi l'altra guancia» valeva solo per i servi e le donne, in quanto non era pensabile che lo schiaffeggiato fosse il padre o il padrone), con la scomunica agli schiavi fuggiti o «infedeli» (se anche riesci a rubare senza che il padrone ti veda, però Lui ti vede e ti fa bruciare in eterno) e ai disertori dall'esercito (dà a Cesare quel ch'è di Cesare, ossia rispetta l'autorità dello Stato); e anche con la sessuofobia, potente strumento di repressione per le masse femminili.
Fu con le matrone principalmente che se la presero i padri della Chiesa, imbevuti di ascetica misoginia orientale e odiatori della salute del corpo, dell'igiene, della ginnastica e dei bagni.
Roma era stata la città delle acque abbondanti, delle fogne ben organizzate, delle piscine depuratorie, delle terme per tutti, degli abiti pratici e ariosi.
La guerra, dopo quasi otto secoli, era entrata dentro le mura della città e aveva distrutto una parte considerevole d'impianti e di monumenti.
Ma c'era anche un fattore ideologico, che faceva apparire poco importante la riparazione degli acquedotti, delle cloache, delle terme: denudarsi e lavarsi era per i cristiani peccaminoso; virtuoso invece tenere il corpo costantemente coperto, magari di stracci immondi pieni di pidocchi.
Persino il battesimo era ridotto a poche gocce d'acqua sulla fronte, e una brocca d'acqua presa alla fontanella bastava per le abluzioni di una settimana.
Far voto di non lavarsi affatto per mesi e per anni per ingraziarsi il nuovo dio era cosa abbastanza comune, e l'odore di santità si prestava a varie interpretazioni.
Il corpo venne sezionato idealmente in una gerarchia di vergogne, al cui apice era il sesso.
Ma il sesso maschile, per quanto si consigliasse di farne un uso discreto o addirittura, per i piú santi, un non-uso, veniva assunto in forma aggravata come simbolo del potere.
Dio aveva creato l'Uomo, e la donna era semplicemente una sua costola, tirata fuori in forma umana per onorarlo e servirlo; avendo tralignato, col mangiare una mela di testa sua, era diventata portatrice perenne di offesa all'ordine costituito.
Perciò Cristo e gli apostoli non potevano essere che di sesso maschile, e cosí San Pietro e i suoi vicari.
Essere uomo non era peccato, ma essere donna si.
E ci andarono di mezzo non solo le belle matrone dalle tuniche trasparenti e dai sontuosi gioielli, ma tutte le donne in quanto tali.
Con particolare accanimento vennero perseguitate le donne colte, che coi loro studi contribuivano allo sviluppo delle arti e della scienza, come Ipazia di Alessandria, inventrice dell'astrolabio e della livella ad acqua, lapidata e fatta a pezzi da una banda di cristiani nel 415.
Sulle donne si riversò un patologico turpiloquio, un attacco frontale mai visto nella storia: porte dell'inferno, tentazioni diaboliche, ricettacoli di tutti i vizi, perdizione per tutti gli uomini, strutturalmente immorali, pericolosamente irrazionali, bisognose di ferree tutele perché portate naturalmente al malfare.
Questo linguaggio assurdo aveva poca presa sulle masse, soprattutto rurali, abituate a considerare gli organi della riproduzione come altamente positivi, degni di rispetto e di poetica venerazione, in quanto simbolo della continuità della vita.
Per cui continuarono per secoli a essere «pagane», che vuol dire semplicemente abitanti villaggi e campagne, e il cristianesimo (che si era maturato nelle sovrappopolate città del Medio Oriente e del Nordafrica, le cui strutture non reggevano alla pressione demografica: l'ideologia sessuofobica era una risposta alle eccessive agglomerazioni, che non trovavano sbocco in nuove forme di produzione) si sviluppò anche in Italia nei centri urbani, prima puntellando ciò che restava dell'impero romano, della sua burocrazia e dei suoi latifondi, poi fornendo ai nuovi poteri romanogermanici, puramente militari, le strutture culturali e amministrative.
Quella parte delle masse diseredate che aveva recepito della sessuofobia cristiana, come i donatisti e numerose altre sette, solo l'attacco ai corpi ben curati, profumati e vezzeggiati dei ricchi, estendendolo a tutta la classe dominante, venne annientata come eretica dalla Chiesa di Roma alleata col potere imperiale di Bisanzio.
E il popolo continuò a coltivare segretamente la sua cultura di origine animistica e comunitaria, antitetica all'accentramento monarchico e alla sua proiezione sovrannaturale nel dio unico.

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