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Civiltà

Questo secolo ha fatto eplodere le contraddizioni nell'uso tradizionale del termine «civiltà», ancora ambiguo e polivalente. Civiltà per tutti o civiltà per pochi? Civiltà di chi accumula beni e conoscenza a spese dei la varatori manuali, o civiltà che tende alla parità economica e culturale?
Civiltà come potere di minoranze specializzate nell'organizzare la società a proprio vantaggio, o come crescente capacità per tutti i cittadini di gestire i problemi che condizionano la loro esistenza, la produzione e la distribuzione dei beni e le regole del convivere? Civiltà che si riferisce a un dio con cui non si discute, a leggi «divine» o «naturali», o civiltà della verifica storica quotidiana? Civiltà basata su astratti principi dei diritti dell'uomo, o ancora alla concreta possibilità di farne uso? Civiltà che si regge sull'argomento ultimo dell'aggressione armata o civiltà che crea i presupposti di un reale rispetto della vita umana? Civiltà che produce depredando e immiserendo l'ambiente, o che lo rispetta e lo arricchisce con una produzione equilibrata?
Civiltà degli uomini a spese delle donne, o civiltà degli uomini e delle donne insieme?
Se guardiamo tutto l'arco della nostra storia, e lo guardiamo dal punto di vista dei subalterni, degli schiavi e dei proletari, dei colonizzati e della maggior parte delle donne, condizionati dalla fatica fisica e dal terrore di autorità incontrollabili, mutilati della possibilità di realizzare la propria esistenza, derubati dei risultati del loro lavoro, dobbiamo riconoscere che è una storia, non di civiltà, ma di inciviltà. Se il furto, il sequestro, il ricatto, l'assassinio sono crimini, le classi dominanti che li usano largamente nei confronti delle masse non possono essere considerate meno barbare perché fanno le cose in grande.
La teoria, elaborata dai piú raffinati cervelli al servizio dei dominatori, secondo la quale la politica è una cosa, e la morale un'altra, è barbaricamente contraddittoria: politica e morale sono espressioni di un identico problema, che è lo sforzo degli esseri umani di crearsi regole di convivenza, vivibili e non distruttive.

La frattura tra le classi è stata sempre soprattutto tra i molti costretti a fornire energia fisica per la produzione di beni, e i pochi che questi beni si accaparrano per liberarsi dalla fatica e assicurarsi tempo libero da dedicare alla codificazione del loro privilegio e all'organizzazione di una forza armata per difenderlo. Per costruire una situazione tanto svantaggiosa per la grandissima maggioranza, i privilegiati dovevano concentrare tutto il loro ingegno sui mezzi per renderla innocua: dalla fatica eccessiva all'esclusione dall'alfabeto, dalla paura della violenza corporale al terrorismo psichico di superpoteri sovrumani. Quanto alla metà femminile delle masse torchiate, dato che oltre a fornire energia per la produzione la fornivano anche per la riproduzione della specie, il trattamento veniva aggravato.
Un tempo si chiamava «storia» solo la storia delle classi dominanti; oggi questo punto di vista appare inaccettabile. Le masse, maschili e femminili, dei lavoratori manuali, per quanto subalterne, non sono state passive e «fuori della storia». Che storia ci sarebbe stata, se queste masse non avessero pazientemente e intelligentemente trasformato la natura in tutto ciò ch'è necessario alla sopravvivenza e al vivere sempre meglio, dalle coltivazioni all'ultima manipolazione dei cibi nelle cucine, dalle cave di pietra dove nascono le case e i palazzi ai telai dove la fibra grezza diventa sontuoso tessuto? Quanto deve la scienza piú ardita alla pratica quotidiana del contadino e dell'artigiano, alla loro ingegnosità costante nell'inventare nuove tecniche e nuovi attrezzi, alle sperimentazioni secolari delle guaritrici, delle conciaossi, delle erboriste? Quanto delle espressioni poetiche musicali, pittoriche, architettoniche hanno le loro radici nella inventiva popolare? E se pure il lavoratore è stato escluso dal potere di stabilire le regole di convivenza della società, di gestire la distribuzione dei beni che produce, di sistemare in teorie scientifiche la sua esperienza, è sulle sue spalle che il mondo si è retto e ha camminato. L'uomo è uomo (e donna) perché ha delle mani intelligenti, capaci non solo d'impugnare un bastone come un gorilla, ma di fare di una palude un campo di grano, una macchina da un metallo inerte. La storia è soprattutto storia di questa intelligenza, e delle lotte per difendere lo sviluppo pacifico della produzione dal bastone dei gorilla, anche se ammantati dei prestigiosi panni di un imperatore, di un condottiero o di un capitano d'industria.
Se contestiamo la qualifica di «civile» alle società dominate da pochi a spese di una maggioranza rapinata e repressa e riteniamo che la civiltà (di tutti, uomini e donne) si costruisce con le lotte di sempre piú larghe masse capaci di decidere sui problemi concreti della,sopravvivenza e della convivenza, la questione femminile, che coinvolge la metà abbondante degli esseri umani, appare fondamentale. Liberazione, rivoluzione, non vuol dire ricominciare tutto da capo.
Vuol dire esaminare il piú rigorosamente possibile i nostri condizionamenti di oggi, la nostra esistenza presente, per 6 fare delle scelte tra ciò che va respinto e distrutto, e ciò che va sviluppato e portato avanti. Ma non si può conoscere la realtà dell'oggi se non si portano alla luce della coscienza le sue motivazioni e i suoi perché, accumulati nell'aggrovigliato procedere delle vicende umane. Perciò è necessario fare storia.
Partire da dati biologici e psicologici, generali e permanenti, è un modo sottile e contorto di riesumare le «leggi naturali» o addirittura il trascendente, di mettere sullo stesso piano la serva e la padrona. Dire «le donne» è come dire «i negri», come se all'interno del comune sesso o del comune colore della pelle non vi fosse divisione in classi, accumulazione di rapina e abuso di potere da una parte, fatica terrore e ribellioni soffocate dall'altra. Il fatto che i privilegiati donne o negri subissero il disprezzo di gruppi prigilegiati piú attrezzati e efficienti, non rende piú accettabile il loro rapporto coi subalterni.
Anche i dati sociali vanno articolati nelle loro differenziazioni interne. Dire «gli schiavi» accomunandoli tutti in una condizione analoga è quanto mai approssimativo: nel mondo antico, c'era una bella differenza tra l'essere una schiava agricola o un'etera che conversava con Pericle, uno schiavo incatenato ai remi o un professore di greco nella villa di un senatore romano; e, nei tempi moderni, tra il facchino curvo sotto le balle di cotone e il sorvegliante promosso al potere della frusta. Anche tra gli internati in un campo di sterminio si crea la lotta di classe: c'è chi muore sotto le botte e chi diventa kapò.

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