VILLANE E CASTELLANE
L A CULTURA CONTADINA che riemerge alla
fine del mondo antico è quella che era rimasta schiacciata dalla formidabile
macchina dello Stato romano, e aveva continuato a esistere solo nelle zone meno
popolate e meno produttive di contadini e pastori liberi.
I romani, sempre pratici, non ritenevano utile impiegare grandi forze militari
e amministrative per occupare pezzi di territorio montagnoso, di scarsa utilità
strategica o comunque poco fertile e poco abitato, che avrebbero reso pochissimo
e creato difficili problemi di controllo; mentre circoscritti e lasciati a se
stessi, diventavano autosufficienti e non tendevano a espandersi, né
a costituire un pericolo per le zone del latifondo, dei centri urbani, della
grande viabilità militare e commerciale.
Dopo il 1860, quando economisti piemontesi e lombardi scesero a fare indagini
sugli ex-Stati pontifici recentemente annessi, si accorsero con stupore che
nell'Appennino centrale prosperavano ancora residui di anti chissime società
comunitarie: «comunanze», «partecipanze», «università»,
«consorzi delle famiglie originarie» ecc.
Solo attorno ai monti Sibillini, nella provincia di Ascoli, c'erano ancora 176
comunanze, con statuti consuetudinari che risalivano a tempi anteriori al diritto
romano e alla proprietà privata.
La terra era suddivisa in bosco, pascolo e campi coltivabili: nel loro bosco
ogni famiglia faceva provvista di combustibile e di legname da costruzione;
il bestiame e il pascolo erano indivisi, e i prodotti del taglio dei boschi
e della falciatura venivano spartiti tra tutti i «comunisti»; ogni
famiglia aveva in uso esclusivo, ma temporaneo, qualche appezzamento coltivabile
e non vi era diritto di eredità; il godimento della comune proprietà
era subordinato al lavoro di ciascuno e proporzionato ai bisogni di ogni famiglia;
l'assemblea di tutti gli adulti, uomini e donne, discuteva le questioni generali
e eleggeva, per un tempo limitato, due «massari».
In queste comunità, rifiugiatesi da millenni in zone povere e impervie
per sfuggire all'avidità dei proprietari, la posizione della donna era
di grande prestigio: non solo partecipava alla produzione e alla distribuzione
dei beni, ma gestiva l'assistenza medica e la mediazione con il sovrannaturale.
Ricostruire la realtà di queste civiltà comunitarie con le quali
Roma aveva dovuto fare i conti, e i cui residui erano sopravvissuti fino all'epoca
industriale, è certamente interessante; ma gli studi sono ancora embrionali.
Chi erano le sibille, citate da Eraclito e da Varrone, non come casi isolati,
ma come titolo dato a un gran numero di donne in tutta l'area mediterranea?
Che significato ha la leggenda dei rapporti tra la sibilla cumana e il re etrusco
di Roma Tarquinio, che si rifiuta di pagare a caro prezzo le nove tavole legislative
che la sibilla gli offre, e alla fine deve contentarsi di tre sole pagandole
con la stessa quantità d'oro? Che tipo di cultura rappresentavano queste
scritture in osco-umbro, contrastanti con la religione di Stato ma cosí
importanti per il consenso popolare da essere consultate nei momenti di grande
emergenza, come dopo le vittorie di Annibale, quando le sibille ordinarono l'introduzione
del culto della Magna Mater, la Gran Madre frigia, coi suoi riti offensivi per
il decorum romano? Perché la loro tenace persistenza nella memoria popolare
obbliga anche il cristianesimo a riconoscerle, equiparandole ai profeti dell'Antico
Testamento (dies irae, dies illa - teste David cum Sibyla? Perché il
vescovo Firmiano Lattanzio, padre della Chiesa, confessore dell'imperatore Costantino
e ispiratore del Concilio di Nicea, cita nelle sue Divinae Institutiones i libri
sibillini come fonte di saggezza e di preveggenza? Come si configurano durante
il medioevo e l'età moderna, sotto il nome di streghe (strynx, civetta,
simbolo della saggezza; inglese witch e tedesco hetze da wit, sapere; francese
sorcière da sort, destino umano) o ancora col nome di sibille (a Giovanna
d'Arco è attribuita una madrina Sibilla, e a una `sibilla la paragona
il vescovo di Embrun; l'antica sede della sibilla cimmerica, nell'Appennino
umbro-marchigiano, continua a essere magica mèta di italiani e stranieri,
dai cavalieri germanici a Cecco d'Ascoli, da Antoine die la Sale, inviato dalla
duchessa di Borbone, a Benvenuto Cellini; il cardinal Farnese, futuro Paolo
III, ascolta a Visso le predizioni della sibilla Angeruta, che si rivelano esatte)?
Che cosa nasconde l'accanimento delle pandette di Giustiniano, degli editti
di Rotari e di Liutprando, dei capitolati di Carlomagno contro le guaritrici
e le erboriste definite maghe e incantatrici? Che ruolo avevano queste donne
nella celebre scuola medica di Salerno e nelle corporazioni di medici e chirurghi
nei secoli seguenti? Come gestivano la rete di assistenza sanitaria alle masse
dei lavoratori sovraffaticati e sottoalimentati, esclusi dalla medicina ufficiale
per i ricchi e incitati dal potere ecclesiastico a considerare la malattia come
punizione divina dei peccati, da sopportare passivamente? La gran confusione
di poteri che segue lo sfacelo dello Stato romano crea degli spazi di autonomia
e d'iniziativa per gli schiavi, i contadini, gli artigiani, le donne.
Le bande di contadini e pastori germanici che arrivano in Italia con tutto il
loro armamentario domestico e i loro rapporti interni ancora in parte comunitari,
erano bande di poveri, sospinti dalla necessità di trovare cibo per sé
e per gli animali da cui dipendeva la loro sussistenza; e apparivano all'angariato
lavoratore italiano (che era già un misto delle etnie piú diverse,
in quanto gli schiavi erano stati importati dalle piú varie parti) assai
piú affini e vicini che non il proprietario schiavista o l'esattore imperiale,
semidei che circolavano a cavallo o in lettiga circondati da rutilanti armati
e da aguzzini con le fruste; di fronte a loro il povero non poteva che prosternarsi
con la fronte fino a terra, tremando per la propria sopravvivenza.
Ma quando gli stranieri biondi, mal coperti di pelli e di rozzi tessuti, le
barbe e i capelli incolti, si fermavano la sera con le donne, i loro bambini,
le loro bestie e accendevano i fuochi per la notte, i pastori e i contadini
del luogo si avvicinavano e si riconoscevano in una sorte non dissimile.
Tanto piú che i germanici, pur distinguendo assai bene i ricchi e i poveri,
non riuscivano a vedere la differenza tra un liberto e uno schiavo, e lo trattavano
di conseguenza, bene o male, come qualsiasi altra persona.
Soltanto i capi-cercavano di adeguarsi alla mentalità e al costume della
classe dirigente romana, e ci riuscirono anche troppo bene.
I monasteri benedettini che cominciano a costellare le campagne nel sesto secolo
non sono centri di contemplazione ascetica né di missionari dediti all'evangelizzazione,
ma aziende agricole di tipo nuovo, ideati dall'a ristocratico romano piú
colto e moderno di quel secolo, Benedetto da Norcia, preoccupato per lo sfacelo
economico e produttivo del suo paese.
La sua regola non ha nulla di mistico e di escatologico, ma si basa sul buon
senso, mette in primo piano il lavoro produttivo e non nega ai monaci una buona
dormita e un bicchiere di vino; molti monaci e abati sono regolar- mente sposati
e hanno figli legittimi (la figura della «pretessa» e della badessa
come moglie dell'abate sono comuni nella favolistica popolare); solo piú
tardi, con le riforme di Gregorio VII e i concili laterani del XVII secolo,
la Chiesa darà indicazioni sul celibato, che diventeranno perentorie
col concilio di Trento.
I monaci delle cortes agricole, contadini essi stessi, sono molto piú
vicini alla cultura contadina che non al cristianesimo urbano e castellano,
sempre tendente all'accentramento del potere nella monarchia assoluta; il mito
romano del divo Augusto, dell'imperatore divinizzato, continua nel papato, rappresentanza
autorizzata del dio unico, e nell'impero germanico, che si aggiudica la grazia
divina.
La cultura contadina è invece legata a un'appropriazione concreta e non
astratta del territorio, agli sforzi ingegnosi e diretti per renderlo produttivo,
alla convivenza pacifica che rende questi sforzi possibili.
I suoi interessi non possono mai coincidere con la guerra di conquista, con
l'alienazione del produttore da ciò che produce, col disprezzo per la
donna e per la fertilità del sesso.
La divisione astratta e intellettualistica tra principio del bene e principio
del male, tra Dio e Diavolo, è estranea all'animismo rurale, popolato
di simboli poetici di attività quotidiane, di genii e di dèmoni
umanizzati e dialettici, che sono nel tempo stesso buoni e cattivi, positivi
e negativi come tutte le cose della vita, come i sessi che si uniscono e si
dividono per dar luogo a nuove nascite e a nuove morti.
La morte non è fonte di speculazioni angosciose e di allucinazioni disperate,
come per i privilegiati, ossessionati dalla rabbia di constatare almeno in un'occasione
l'impotenza del loro potere e di dover morire come l'ultimo dei poveracci; ma
fa parte del ciclo normale dell'esistenza, del fluire delle stagioni, del viaggio
dal seme al frutto e dal frutto al seme.
Negli ultimi secoli del primo millennio riemergono nelle campagne nuovi strati
di lavoratori liberi, o semiliberi, che ottengono l'uso della terra, con nuovi
tipi di contratti, dai poteri che si accavallano, si contrastano e spesso si
annullano a vicenda; e rimettono in comune il godimento dei boschi e dei pascoli.
I progressi tecnici che caratterizzano quell'epoca tutt'altro che buia sono
il frutto delle attente e intelligenti sperimentazioni dei lavoratori manuali:
dalla rotazione delle colture di grano e di maggese all'introduzione del telaio
orizzontale a pedali al posto di quello verticale, dall'uso dell'energia idraulica
per i mulini, le seghe, le irrigazioni a quello del collare per i cavalli al
posto della carrucola a quello del timone di poppa anziché laterale per
i natanti, del filatoio che rendeva cinque volte di piú della vecchia
conocchia e del vecchio fuso alle migliorate condizioni igieniche che fanno
diminuire le epidemie e la mortalità infantile.
Che parte avevano le donne, all'interno dei nuclei familiari tutti impegnati
nel lavoro produttivo, in questa inventiva e in queste trasformazioni? È
difficile documentarlo.
Si può però osservare che nelle società dove la donna era
chiusa in casa e non partecipava ai lavori agricoli, o solo come manovalanza
schiavizzata, come nei califfati dell'Africa del Nord e nel Medio Oriente bizantino,
l'agricoltura va a rotoli, e i granai dell'antica Roma diventano deserto.
Mentre dove si rafforza l'azienda familiare, col lavoro di tutti i membri della
famiglia, si avviano bonifiche.
Si può anche fare un raffronto tra l'India, dove l'agricoltura è
compito degli uomini, e la Cina, dove la donna ha sempre partecipato al lavoro
agricolo.
Via via che il potere militare e quello ecclesiastico si rafforzano e si organizzano
nelle forme feudali, il mondo contadino e la sua cultura vengono privati di
spazi autonomi e respinti a condizioni di servitú, e con essi le donne.
Si espande e s'impone ovunque il diritto canonico, che istituzionalizza il dominio
del maschio, peggiorando il diritto romano col barbaro patriarcalismo del Vecchio
Testamento e con gli aspetti piú retrivi dei codici germanici.
Si appropria del matrimonio, che per molti secoli era stato un contratto civile,
e lo definisce sacramento, perciò indissolubile; il divorzio è
abolito e s'inaspriscono le leggi patrimoniali, oltre che morali e civili.
La donna è nata per servire l'uomo e la monogamia vale solo per lei,
in quanto il corpo della donna è proprietà dell'uomo, ma il corpo
dell'uomo non è proprietà della donna; l'adulterio della donna
è un furto, quello dell'uomo no; l'adulterio femminile e il parricidio
sono considerati i crimini piú gravi, da punire con le pene piú
atroci, come aggressioni sovversive ai sacri fondamenti del potere, la proprietà
privata e il patriarcato.
Padre padrone padreterno.
L'operazione procede con difficoltà, scontrandosi con le resistenze della
cultura popolare, ed è definita solo col concilio Trento.
L'omosessualità, che nel mondo antico era considerata un aspetto legittimo
dell'attività sessuale, senza nessuna implicazione delittuosa, di- venta
per il diritto canonico un crimine orrendo.
In pratica, si esercita molto piú di prima, perché si erigono
barriere mai viste in precedenza tra la parte maschile e la parte femminile
della società, e si frappongono tali e tanti ostacoli al rapporto eterosessuale
che anche chi lo preferirebbe è costretto a ripiegare sull'omosessualità
o la masturbazione.
Il sesso non dev'essere gioiosa e sincera espressione di vita, ma vergogna e
menzogna, da usare nel massimo segreto e il meno possibile, solo per l'inevitabile
continuità della specie.
Viene condannato in maniera così drastica, che il conflitto tra le esigenze
naturali e l'impossibilità di realizzarle diventa fonte permanente e
generalizzata di spaventosi terrori, deviazioni e follie.
Contro il mondo del lavoro i centri del potere militare e canonico esercitano
una repressione senza sfumature, senza quei tentativi di dialogo che avevano
caratterizzato l'ultimo scorcio dell'impero romano, col passag gio dalla condizione
di schiavo a quella di colonus adscripticius, e il primo impianto delle abbazie
benedettine coi loro contratti a livello o a enfiteusi.
L'ultimo capitolare del vecchio Carlomagno, nell'810, è una prolissa
e spaventata omelia contro il vulgaris populus accusato di tutti i delitti:
il povero, in sostanza, è comunque un criminale in potenza.
Si scava una frattura sempre piú profonda tra il villaggio e il castello,
tra la campagna e il centro urbano: villano, rustico, pagano, contrapposto a
cristiano, urbano, cortese.
Il mito del sangue ideologizza la divisione in classi: il sangue dei nobili
non è uguale a quello dei non-nobili; la grazia divina investe anche
deficienti e paranoici, purché forniti di sangue blu, del sacro diritto
di comandare.
La questione del sangue e del non-sangue, dei legittimi e degli illegittimi
diventa per secoli la base di tutti gli intrighi del mondo dei signori.
E la fedeltà della donna all'uomo, come quella del vassallo al suo signore,
viene esaltata come virtú preminente.
Per i subalterni, i principi di fedeltà e di adulterio vengono adattati
alle concezioni feudali.
Il servo della gleba non possiede nulla: la terra che lavora è del suo
signore, e anche il corpo di sua moglie è del suo signore.
Le mogli dei servi che vanno nel letto del feudatario non vengono perseguite
per adulterio, e i mariti vengono incoraggiati ad ammaestrare mogli e figlie
alla piú completa sottomissione.
Le dame dei castelli non si offendono per queste escursioni sessuali dei loro
uomini nel mondo ancillare e contadino; anzi inventano il mito della virilità
come capacità di un gran numero di coiti con un gran numero di donne.
L'uomo fedele alla moglie, come il ragazzo vergine, è una figura ridicola:
l'uomo è cacciatore, piú piume mette al suo cappello piú
è bravo; la donna onesta è una fortezza, piú fortezze si
espugnano piú si può ambire al titolo di generale; se non si ha
voglia di far la fatica di espugnare, si va a puttane, il che è meno
pregiato, ma sempre molto virile.
Per sé, la dama feudale inventa l'amore cortese, che le consente di avere
a portata di mano paggi, menestrelli e cavalieri erranti, e di avviarli eventualmente,
ma con molta delicatezza e molte canzoni, verso la camera da letto; naturalmente
consultandosi con le mulieres, le mammane, espertissime in aborti e decotti,
sul come evitare le gravidanze; la procreazione spetta al marito legittimo,
per la trasmissione del sangue blu.
Nell'assetto feudale, la donna della classe dominante ha in mano larghe fette
di potere economico e politico.
Gli uomini sono continuamente impegnati in operazioni guerresche e spesso non
sanno fare altro; il frutto delle rapine e l'accumulazione delle scorte nei
sotterranei dei castelli viene generalmente gestita dalle donne, sono loro che
ricevono i mercanti e scambiano le merci.
Il sangue blu è egualmente pregiato se scorre nelle vene di un uomo o
di una donna, per cui non vengono escluse dal potere politico, e in molti casi
giungono al vertice della sovranità, come Amalasunta o Ageltrude, Matilde
di Canossa o Eleonora d'Arborea.
Alle badesse e alle direttrici di ordini monacali vengono attribuiti terre e
mulini, castelli e servi della gleba, diritti di esazione e di amministrazione
della giustizia; e qualche volta danno consigli a papi e imperatori. Di fronte
a donne nobili e potenti, il potere ecclesiastico dimenticava gli anatemi sessuofobici
e fallocratici con cui terrorizzava le donne fornite di comune sangue rosso.
Il diritto canonico era buono per tenere a bada i subalterni.
Le castellane fruivano ampiamente dei privilegi della loro classe e tendevano
a consolidarli: è attorno alle loro gonne bordate d'oro che s'inventano
e si tramandano le epopee cavalleresche, il mito della violenza e della spada
come sola occupazione degna di chi è nato bene, il brutale disprezzo
verso chi è nato male e deve lavorare per tutti.
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